Comano
«Anno ab incarnacione Domini millesimo septuaginta VIII quando restaurata fuit ista ecclesia Oto magister me fecit»
(Epigrafe di Otone – 1078)
Del Castello di Comano si sa che nell’884 fu donato dal marchese e duca di Toscana Adalberto I al monastero benedettino di Aulla. Nel 1164 Federico Barbarossa attribuì il feudo a Obizzo Malaspina il Grande con diploma imperiale. Nel 1352 un altro Grande, Spinetta Malaspina, lo lasciò in eredità ai suoi legittimi eredi (1352), cioè i nipoti Gabriele, Guglielmo e Galeotto Malaspina, figli del fratello Azzolino II.
In seguito Comano dapprima divenne parte del marchesato di Fivizzano, poi passò sotto la repubblica fiorentina (1478). Tornò una frazione di Fivizzano nel 1811 sotto l’impero napoleonico e divenne infine comune autonomo soltanto nel 1919.
Dei tempi antichi restano in Comano le vestigia fascinose del castello, della cui struttura originaria è però solo il dongione, cioè la splendida torre fortificata a pianta circolare. Le mura sono di epoca quattrocentesca.
Un’altra vestigia di grande importanza è conservata nella sacrestia della Chiesa di S. Maria Assunta di Crespiano. Si tratta dell’Epigrafe di Otone (1078), che così recita: «Anno ab incarnacione Domini millesimo septuaginta VIII quando restaurata fuit ista ecclesia Oto magister me fecit».
L’iscrizione pone in evidenzia la figura di un Mastro Otone quale artefice della ristrutturazione della pieve, la quale è dunque di fondazione assai più antica. Parliamo di uno degli scritti tra i più antichi della Lunigiana Storica, la cui grande particolarità è data dai punti di separazione delle parole inseriti in modo erroneo, interposti cioè anche alle lettere di una medesima parola. Potrebbe essere un segno evidente che il lapicida fosse un analfabeta, ma è più probabile che stesse copiando senza più conoscere il latino: se il chierico lasciò passare la cosa, e se nessun altro sollevò obiezioni, è perché ormai, intorno al Mille, anche nei borghi lunigianesi la popolazione (il volgo) conosceva esclusivamente la nuova parlata (detta perciò volgare), quella stessa che il grande padre Dante avrebbe poi reso “illustre” con il suo fondamentale De vulgari eloquentia e infine glorificata nell’eternità della Divina Commedia.